Questo libro rintraccia gli indizi di pieghe e margini filosofici in un percorso creativo, quello di Alberto Giacometti, che ha messo in primo piano il desiderio vitale di conoscere radicalmente. I due saggi di Jean Soldini vogliono interpretare i movimenti dell’occhio, della mano, del pensiero indispensabili all’artista per inseguire e attendere la somiglianza col reale: «L’arte mi interessa molto, ma la verità mi interessa infinitamente di più».Visione introvabile di un esistente che gli si manifesta nel suo atto di esistere, di un visibile che è, così, movimento da presentare, in modo sempre inadeguato, nell’immobilità della figura dipinta o scolpita.
Per rapportarsi ad esso Giacometti agisce, dalla metà degli anni Trenta, all’interno di una dimensione sacrificale. Egli deve cercare di conoscere, attraverso un lavoro ossessivo, nell’apparenza che «è il nocciolo stesso», un visibile sempre più meraviglioso, attendendo nel contempo la sua manifestazione. La realtà che stupisce Giacometti è contemporaneamente sacra e profana, piena e priva di senso perché «santificata» dalla violenza dell’essere che fa la forma tesa al di là di sé, la cui misura erode se stessa e travolge la visione, per cui il visibile finisce per diventare in qualche modo invisibile.
L’autore si volge verso la biografia dell’artista, verso la sua relazione con la madre e col padre, ma con la preoccupazione di non trasformarla in una spiegazione dell’opera in una causa che rimanda a un effetto. Si tratta di capirla in quanto sollecitazione «utilizzata» in modo fondamentalmente imprevedibile. Si tratta di seguire una passione che non è come un filo teso, che lega un’opera all’altra, un momento, un problema a un altro.